L’homo religiosus nell’esperienza mistica

Alessandro Machìa


In questa sede e in relazione all’affascinante saggio della Prof.ssa Cataldo “L’alba dell’uomo e il sacro” che ci troviamo in questa felice occasione a discutere, il mio breve contributo si concentrerà soprattutto sul concetto di homo religiosus, centrale nell’antropologia religiosa e attorno a cui si struttura il saggio della Cataldo, tentando di metterlo in relazione con l’esperienza mistica attorno a un nucleo che mi pare fondamentale: la relazione con l’alterità, anzi nello specifico col Totalmente Altro.  Come la stessa Cataldo sottolinea nel suo saggio, l’esperienza specifica dell’homo religiosus è l’esperienza della relazione con un’alterità che è un Totalmente Altro, ed è l’esperienza del sacro. Dunque la nozione di homo religiosus – così viene definita dal teologo e storico della religioni belga Julien Ries – consiste principalmente nell’idea di un uomo la cui stessa soggettività, prima ancora di ogni sua eventuale risposta confessionale o bisogno religioso, è in se stessa strutturata, abitata dall’irriducibile rinvio ad una alterità/trascendenza che non si può mai né evitare né dominare. Anzi, la stessa Cataldo ci ricorda opportunamente come il “soggetto” è tale perché la sua stessa identità è abitata dall’altro, è sempre in rapporto all’alterità dell’altro e proprio in questa apertura originaria consiste la conditio humana di per sé inquieta e sempre mancante. In termini fenomenologici quindi, la coscienza è già sempre anche e soprattutto coscienza di una trascendenza, una trascendenza che in sé è mistero, mysterium – concetto opportunamente richiamato nel saggio della Cataldo per indicare appunto « ciò che è nascosto, il non manifesto, il non comprensibile, lo straordinario »[1], ma anche quella tensione dinamica che « come fiume, emana, trapassa l’anima ed erompe, fino a trascinarla nell’estasi »[2] : il mysterium tremendum di Rudolf Otto, che è mysterium perché è mirum, quel Totalmente Altro che irrompe nella temporalità dell’uomo e lo sconvolge suscitando meraviglia, stupore, sbigottimento. Ecco allora che, se teniamo buona l’idea propria sia della scuola fenomenologica con Otto e van der Leeuw, sia quella ermeneutica con Mircea Eliade, cioè del “religioso” come categoria apriori che fonda l’umano, appunto mysterium, il richiamo alla mistica emerge come assolutamente necessario e opportuno, pure nella problematicità che questo tipo di sapere da sempre porta con sé. Non solo per la radice comune che lega mysterium a mystikòn, quel myo che significa “serrare”, “tacere”, “tenere gli occhi chiusi” (da qui il nostro “miope”), ma anche perché, l’esperienza mistica in sé stessa è essere abitati dall’alterità/trascendenza di cui parla Ries, tanto che potremmo dire che l’homo religiosus par excellence è il mistico, a patto – certamente  – di tenere sempre presente lo statuto paradossale in cui viene a trovarsi la mistica rispetto al Totalmente Altro: la mistica infatti, essendo per definizione esperienza dell’Uno, ossia dell’unità profonda tra l’uomo e Dio, del finito/infinito[3], si è trovata spesso ad essere accusata di ateismo in quanto, l’esperienza di unità con Dio esperita dal soggetto rischia di negare l’alterità assoluta di Dio. Come recita il distico del mistico Angelus Silesius nel Pellegrino cherubico:

Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine

Se l’unità non ha inghiottito l’alterità.[4]

 

L’eperienza radicale della mistica dunque, nel ricomprendere il Totalmente Altro nell’unità della sua intuizione, come speciale accesso al mysterium tremendum, di fatto finisce per essere allo stesso tempo la vera garante della trascendenza di Dio, che resta sempre davvero Altro. Il dispositivo mistico partendo dalla negazione della dualità natura/spirito naturale/soprannaturale afferma dialetticamente la presenza del divino nella natura.  Viene in mente l’inizio folgorante della Medea di Pasolini in cui il centauro Chirone ad Giasone bambino dice:

Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo.

Non c’è niente di naturale nella natura,

ragazzo mio, tienitelo bene in mente.

In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio.

E, se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra:

o silenzio o odore di erba o fresco di acque dolci.”

 

Pasolini fa esprime al centauro un concetto tipicamente mistico: tutto è santo, ovvero Dio è in tutte le cose e se non c’è, c’è come traccia direbbe Derrida, come presente/assente, “ha lasciato i segni della sua presenza sacra”. In questo senso San Paolo in 1Cor 15,28 scrive: «Dio è tutto in tutte le cose». Le cose del mondo, le determinazioni semplici (es. questa penna, questo tavolo) non sono Dio, ovviamente, ma sono lo spirito visibile, per dirla con Schelling, del fatto che tutto l’essere non è fuori da Dio. L’esperienza del Totalmente Altro che è alla base dell’homo religiosus, nella mistica diventa esperienza dell’Uno, possibile in quanto esperienza dello spirito che, come tale è dialettica in quanto al di sopra di ogni contenuto e determinazione e, nello stesso tempo, capace di rendere conto di ogni contenuto e determinazione. Questo non significa che venga meno l’alterità e la trascendenza di Dio, ma che nell’esperienza dello spirito questa alterità si fa ancora più chiara; esperienza che come forma espressiva ha quella che Hegel chiamò la “proposizione speculativa”, cioè quella proposizione che segna l’identità concreta degli opposti. [5]

Nell’esperienza mistica cristiana, il sacro come mysterium tremendus a mio avviso si può rintracciare soprattutto nella mistica di San Juan de la Cruz, senza dubbio uno dei più grandi mistici cristiani oltre che il più grande poeta di lingua spagnola e nella nozione di nulla propria della teologi negativa: da una parte la noche oscura del mistico carmelitano richiama la Notte del Sacro, quella Notte che è il sacro, nascosto, trascendente, Totalmente Altro, verso la quale l’homo religiosus non può che tendere, essendone abitato; dall’altra il nulla di Eckhart, con il quale nel linguaggio della mistica il  grande teologo domenicano definisce Dio, in una straordinaria lettura delle Scritture contenuta nei suoi Sermoni. Ma la noche oscura di S. Giovanni della Croce e il nihil eckartiano sono intimamamente legati ed entrambi espressione della nostra relazione col Totalmente Altro, della nostra prossimità col mysterium tremendum, col sacro, a condizione di praticare la via del distacco, dell’abbandono, quella Gelassenheit che Heidegger riprende proprio da Meister Eckhart. In Luca 5,5 rispetto alla chiamata dei primi discepoli possiamo leggere :

« Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla. ». Bene, in questo versetto troviamo accostate due parole, “notte” e “nulla” che stanno al centro dell’esperienza mistica come unità col Totalmente Altro; e a spiegarlo è un altro mistico tedesco Giovanni Taulero, che S. Giovanni della Croce conosce bene: il lavoro della notte a cui I pescatori si sono dedicati consiste appunto nella più vera assoluta povertà, nel totale annientamento di se stessi dove non si vuole, non si ha, non si desidera, non si cerca altro che Dio stesso, nell’abbandono e nella desolazione.[6] Quindi il lavoro della noche, ha come risultato il nulla, l’annichilimento di sé e appunto l’unione dell’anima con Dio. E questo perché Dio stesso, come Totalmente Altro può mostrarsi solo come nada, come nulla, cioè come altro da ogni detrminazione possibile e per l’identità di soggetto e oggetto che istituisce l’unione mistica. Un famoso sermone di Meister Eckhart recita: « Quando Saulo vide il nulla, allora vide Dio.»[7]  Il sacro che abita l’uomo come assoluta alterità e trascendenza, nella mistica di Eckhart si traduce in quello che il domenicano chiamava il “fondo dell’anima”, ovvero la realtà più profonda del nostro essere, quell’abisso senza fondo in sui ha sede e si genera la stessa divinità. L’essenza dell’anima per Eckhart è Dio stesso, ma non come fondamento in senso ontologico, ma come una profondità senza fine, come movimento possibile solo nel distacco e nell’annullamento di sé. Il fondo dell’anima è quindi il luogo dove l’essenza dell’uomo si incontra e coincide con quella di Dio ma dove la divinità rimane trascendente e impredicabile nella sua assolutezza e alterità.[8]

Ma il Totalemente Altro che abita l’homo religiosus come alterità, è anche desiderio proprio in quanto mancanza o sete mai appagata come nel caso della mistica di Teresa d’Avila e nell’esperienza estatica dei suoi rapimenti in cui l’Altro assente si fa presenza viva e bruciante.

Teresa racconta nel Libro della vita la sua prima visione, quella di Gesù che, con volto severo, le appare proprio durante una conversazione leggera, a comunicarle tutto il suo dispiacimento. Scrive Teresa:

«Lo vidi con gli occhi dell’anima, ma più chiaramente che con quelli del corpo, e mi rimase così impresso che, nonostante siano trascorsi ventisei anni, mi pare ancora di vederlo. Ne fui così spaventata e confusa che non volevo più vedere la persona con cui stavo parlando».[9]

 

È evidente qui il cortocircuito tra il piacere e la paura, rispetto alla visione del Totalmente Altro,  tra

l’acconsentire a una «consolazione» che eccita il desiderio al livello più immediato e sensuale e il ritrarsi di fronte al proibito, all’interdetto religioso attivato in questo caso specifico non dal timore della sanzione ma forse dalla nostalgia per una altro tipo di «consolazione», per un altro «oggetto» d’amore, mancante sì, ma in grado anch’esso di eccitare il desiderio attraverso la sua elaborazione psichica, immaginativa e affettiva nel tempo della meditazione interiore. È precisamente da questo cortocircuito che scaturisce la visione, come proiezione al di fuori di una tensione inconciliabile col Totalmente Altro, e il problema di conciliare l’amore di Dio con l’amore per il prossimo. In Teresa d’Avila qui e in altri meravigliosi passaggi del suo Libro, tuttavia, il problema più che l’amore riguarda la sparizione del suo oggetto, e dunque il desiderio che spinge a cercarlo, a individuarlo. Una tensione che procura soddisfazione e perfino piacere, ma è un tendere disarticolato

e alienante. Non è un caso che a questo episodio seguiranno, per Teresa, anni di grave malattia.

Julia Kristeva, in quello che è certamente un capolavoro, il suo Teresa mon amour, insiste acutamente a intendere le immagini del Totalmente Altro come il riconoscimento della

natura ambivalente del desiderio. Scrive Teresa in quello che forse è il punto più alto del suo Libro della vita, il cap. 29:

« In un’estasi mi apparve un angelo tangibile nella sua costituzione carnale e era bellissimo; io vedevo nella mano di questo angelo un dardo lungo; esso era d’oro e portava all’estremità una punta di fuoco. L’angelo mi penetrò con il dardo fino alle viscere e quando lo ritirò mi lasciò tutta bruciata d’amore per Dio […]Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore che no c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio » .[10]

 

Questa celebre narrazione descrive il rapporto di desiderio/godimento col Totalmente Altro, e traccia un filo invisibile tre erotica e mistica. Fuori da ogni suggestione, la ricerca che Teresa fa di Dio è sofferta perché l’esperienza d’unione in sé è un fenomeno indicibile, e Teresa stessa temeva di cadere nell’inganno attribuito al demonio. E veniamo al punto centarel dell’esperienza dell’homo religiosus nella mistica:

« Mi pareva che Dio mi stesse molto vicino, e siccome da principio non sapevo che egli è in ogni cosa, il fatto mi sembrava assai strano. eppure lo vedevo così chiaro da non essermi possibile di credere diversamente. quelli che non avevano studiato mi dicevano che era soltanto con la sua grazia. Ma io non mi potevo convincere, perché, come dico, mi pareva che lo fosse realmente, e me ne rimanevo con pena. Mi venne a togliere da questo dubbio un dottissimo religioso dell’ordine di San Domenico, il quale mi disse che dio era realmente presente e mi spiegò come si comunica alle anime, per cui rimasi molto consolata (C 18, 15) » .[11]

 

Qui la Santa non manca di sottolineare il carattere drammatico di questa presenza di Dio: Dio non si impone mai alla libertà dell’uomo. La sua presenza può essere trascurata. Ma l’anima dell’uomo è appunto come un castello con molte dimore, di cui quella centrale è appunto abitata da Dio, un Dio che è presente pur essendo Totalmente Altro.


[1] M.C. Cataldo, L’alba dell’uomo e il sacro, Falvision Editore, Lecce 2017, p.13

[2] ibid., p. 13

[3] Cfr. M. Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, Milano 2010, p. 10

[4] A. Silesius, Il pellegrino cherubico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989, IV,10

[5] F. W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000

[6] Giovanni Taulero, I Sermoni, Edizioni Paoline Roma 1997

[7] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi Milano 1985

[8] M. Vannini, Dialettica della fede, Le Lettere Firenze 2011

[9] Teresa d’Avila, Il libro della vita, 7,6, BUR 2001

[10] Teresa d’Avila, Libro della vita, cit.

[11] Teresa d’Avila, Il Castello interiore, Ed. Paoline, Roma 1998