“LI CUNTI“
Cascignanu a li tiempi de la Rosa
Di Rosa Comi
Relazione critica di Maria Concetta Cataldo
Vorrei iniziare questo mio intervento sul testo di Rosa Comi , che oggi presentiamo, con la lettura dei versi di un grande poeta, Davide Maria Turoldo, che dal 1936 al 1978 ha molto frequentato questa nostra magnifica terra del Salento.
Erano anni cruciali di profonde mutazioni sociali, politiche e culturali. Turoldo scrive:
“Uomo, che porti un volto di secoli quando la terra è intatta ancora, salva la terra che è tua, uomo del Sud, la libera terra austera e amica! Tu puoi affacciarti alla grande finestra del mare e guardi alla sponda da dove sulle onde ti giunge il saluto della Madre della Luce.
E questa cultura sia la placenta della tua umanità più vera: qui ora la vita fiorisce, come per le rocce i germogli e nessuno qui è senza radici, tutti orgogliosi d’essere nuovi e antichi.“
Io trovo che il profondo senso di questi versi sia la cifra del gioiello letterario scritto da Rosa Comi “LI CUNTI”.
Uno scritto a tratti trilingue: Rosa scrive nel dialetto del luogo, che è radice linguistica, tradotto in italiano e a tratti anche in Griko:una lingua dialettale antichissima di fusione greco – italiota detta anche KATOITALIO’TIKA, parlata ancora oggi qui nella Grecia Salentina; Il sottotitolo che Rosa da al libro è “Cascignanu a li tiempi de la Rosa” un doveroso riferimento al suo tempo e al suo luogo di vita, luogo che,a detta degli storici, ha origini leggendarie : Castrignano è il cuore di questa Grecìa che accoglie con un abbraccio avvolgente l’estraneo che si affaccia nel quadrilatero dei suoi paesi ricchi di umanità e di storia “Zeni su en ise ettu”. Straniera tu non sei qui
Per ciascuno nella propria geografia dell’infanzia, c’è un luogo che prende su di se i caratteri solenni e sacri dell’origine.
Quel luogo può essere una strada, un giardino, un piccolo paese: la sua aria ,il suo profumo, le sue voci, mentre si svolge via via l’esistenza individuale, si trasformano nella sorgente di un incantamento.
Questo luogo è per Rosa Comi “Cascignanu” – Castrignano dei greci Rosa scrive: Li Cunti non sono racconti, la differenza evidente nel significato dei due termini: i racconti sono brevi storie in se concluse con un inizio e una fine, li Cunti invece, nella loro fulminante brevità dialettale, esprimono l’essenza, l’anima più propria del popolo di un borgo, di un paese di provincia, di una cittadina, dove la “piazza” come scriveva il grande Nicola De Donno era “ancestrale ombellico di memorie”.
Lu cuntu è scena di vita, è l’estratto più genuino di un sentire che sale dalla terra generosa che lo ha generato.
Nei cunti di Rosa vediamo che le partenze, gli arrivi ,le morti ,i pianti dei familiari le nostalgie,le memorie sono gli spettacoli dell’ infanzia e della giovinezza che supportano le perle di saggezza della sua età matura.
La scrittura di Rosa Comi è leggera, autentica, ironica.
La gustosità del testo invita il lettore a partecipare, quasi da attore delle brevi narrazioni mentre avverte il sapore di luoghi e di linguaggi a lui noti.
Rosa inizia il suo scritto dal tempo sommerso dell’infanzia, un tempo disteso tra la sua casa raccolta negli affetti familiari, le strade del paese e la campagna coltivata a grano e tabacco accerchiata da alberi protettivi e ombrosi.
Alla sua nascita sorge il problema del nome : Crocifissa o Rosa? Il padre la chiamerà “Rosa, perché è nata nel mese di Maggio” e il senso di questo fiore nel nome, come per un destino, permane nel vissuto dell’autrice e si avverte come lieve profumo nelle pagine di questo suo libro.
Così senti l’infinita bellezza dell’immagine del Natale col Santo Bambino appoggiato sulla paglia perchè possa dormire; una immagine bella che corrisponde a scene dell’infanzia che già conosciamo e rileggerle oggi suscitano in noi un’emozione dolce.
I suoi cunti sono quadretti di un puzzle che si ricompone sotto la sua penna sapiente: ad es. l’iniezione disinfettata con la bambacia intrisa di alcol; intorno alle nostre case di campagna si coltivava sempre la pianta di questo soffice cotone che serviva a gli usi più vari.
Incontriamo le comari che vanno a comprare per i mariti la carne di asina perché è più economica; sono vissuti di una povertà serena negli anni di una terra agricola dove mangiare la carne era un lusso.
Rosa torna spesso sulla grande differenza sociale che, al tempo della sua infanzia c’era tra i ricchi e i poveri.
Ne lu cuntu “La bambolina” racconta che le figlie dei ricchi signori erano vestite bene con abiti che “noi non ci potiame sonnare … percè ci sentiame comu pupazzi de mascisa (tufo)” però la curiosità e forse una certa ammirazione le spingeva bambine a aspettarle quando passavano per andare alla messa.
D’estate si coprivano il volto con l’ombrellino orlato di pizzo perché il sole non scurisse la pelle –La pelle scura era prerogativa del povero che faticava sotto il sole, non dei signori! – Le ragazze ricche passavano impettite e superbe nei loro begli abiti accessoriati di guanti e borsette all’uncinetto.
Ma, un giorno, Rosa ebbe anche lei la sua rivincita: portò una lettera di un giovanotto in casa della signorina Dorina.
Questa le chiese il nome, poi aprì l’armadio e la rivestì con i “cazzettini bianchi curti fatti all’uncinettu e li svolti ricamati rosa, le mutandine cu lu merlettu, la sottogonna larga mpusimata e tosta, la veste cu le maniche curte a palloncino rrizzate, na nnocca ttaccata alla vita e nu fioccu arretu, le scape nivre cu lu braccialettu.” Un cappellino rosa e la borsetta fatta all’uncinetto.
Poi Dorina felice la invitò a guardarsi allo specchio e disse “sei uguale alle mie bambole” che erano sul letto e la fece sedere tra loro.
Rosa si sentì bella come quelle bambole e mentre andava a farsi vedere dalla madre “tinni sempre la vucca a risu” Ma torniamo con la fantasia e con la cultura del tempo a due cunti di Rosa che parlano dell’amore, quando un ragazzo per poter appena vedere la sua bella si avvicinava all’ abitazione della ragazza per farle un cenno e magari poterle parlare C’è una breve canto “De nnanzi a casa” di “Minello” Rocco Gaetani che riguarda l’amore nella mentalità e nell’atmosfera di quei tempi.
Il canto dice: “De nnanzi a casa toa me cchiai passare, ieu no ‘tte vitti e me marìu lu core, de capu a piedi cuminciai a tremare, perché non vitti a tie dolce mio amore.
Cent’anni me paria lu ritornare E stia comun na crasta senza fiure Sta curte, senza tie, vi’ comu pare? Comu celu cupertu, senza sule! Ne lu Cuntu “La camisa bianca nziddhata de sucu” Rosa descrive tutta la severità dei padri di una volta verso le figlie adolescenti che magari erano alla prima simpatia , al primo amoretto e sentivano battere il cuore se scambiavano uno sguardo col ragazzo di cui erano innamorate, quando lo vedevano passare sotto casa o furtivamente lo incontravano per scambiare poche parole.
Il rimprovero del padre alla ragazza era questo: “Averta ca fazzu te pighia lu friddu se isciu ca parli cu dru camasciu” Scansafatiche; il ragazzo non era adatto a sua figlia ,e qui tutta una serie di confronti tra il proprio benessere e la povertà della famiglia del camasciu che avendo la casa col buco sul tetto era costretta a stare con l’ombrello quando pioveva, mentre loro, (la famiglia della ragazza) sazi di pasta e di carne, canzonavano il povero innamorato che alla domenica si faceva vedere con la camicia schizzata di sugo per mostrare che anche lui mangiava la pasta.
E alla fine del rimprovero dalla bocca del padre usciva la frase lapidaria “Se vuoi fuggire con lui “Mintu lu manifestu del luttu e te chiangu de morta” E le madri non erano meno severe , la ferrea educazione proibiva alle figlie incontri d’amore precari; e ne “La stagione de lu tabbaccu” Rosa ci racconta che la madre fin da bambine le metteva in guardia dal pericolo che qualche ragazzo “birbante”potesse seguirle con cattive intenzioni; le avvertiva di correre quando camminavano sulle strade di campagna perchè c’era il folletto che le inseguiva.
Era il culto di una mentalità che voleva le figlie solo ragazze da marito e per un marito, che doveva essere prima di tutto un lavoratore e ancora meglio se possedeva del suo.
Infatti fidanzamenti e matrimoni erano appannaggio delle “ruffiane”, discrete comari che avevano in testa l’archivio delle opportunità nuziali della comunità e con prudenti investigazioni sondavano le intenzioni e il gradimento di scapoli e zitelle; poi con la complicità delle madri combinavano casuali incontri in casa di comuni amici e parenti.
Quando il negozio era bene avviato con gli accordi tra le famiglie sulla dote, iniziava il fidanzamento piuttosto lungo in cui i nubendi, nei loro incontri,erano costantemente sorvegliati dalla presenza di un familiare testimone della misura delle loro effusioni.
Il matrimonio poi era un evento, una festa grande ma sontuosa in rapporto alle possibilità economiche della famiglia della sposa a cui spettava l’onere della parte conviviale.
Rosa Comi ne lu cuntu “Candallini, confetti e mendule rizze” ci racconta che si era sparsa la notizia di un matrimonio tra la sposa figlia di Nnucciu e lo sposo figlio di Cacciapetate.
A lei e alle altre ragazzine non interessava affatto la cerimonia ma il momento in cui il corteo usciva dalla casa della sposa con un lungo codazzo di amici che lanciavano cannellini, i confetti e mandorle ricce.
Rosa con le altre metteva un vestito con le tasche grandi per raccoglierne quanti più possibile:” Sciamu te coste alla zita ca ne sta minane a francate (di confetti)”.
Seguivano la sposa da vicino anche perché il padre ad ogni passo lasciava cadere sulla testa della figlia i confetti nuziali.
Poi correvano verso gli altri luoghi del paese dove avvenivano i lanci più sostanziosi fino ad avere le tasche piene e pesanti d confetti e cannellini.
Ma la vera “zita” era quella che metteva il fiore sulla testa, e la “Nzina” le aveva detto che quel fiore si chiamava “fiore d’arancio” perché indicava la purezza della sposa.
Rosa guardò la sposa :” Ieu la gurdai e non vitti gnenti!” Nell’intreccio tra vita e morte erano peculiari, nel territorio della Grecia i funerali ,nel corso dei quali i defunti venivano onorati con i Moroloja: la tradizione di questi canti funebri improvvisati affonda le radici nelle Grecia Omerica: nell’Iliade omerica le troiane piangevano i loro morti intonando canti che ne esaltavano le virtù;sappiamo che nelle tragedie greche il coro intonava i lugubri canti sul corpo dell’eroe caduto.
Ne lu cuntu di Rosa “Le chiangimorti – le Prefiche”: le due comari Vituccia e la sua amica si accordano per recarsi al canto funebre per la morte dell’amica Mineca; particolare fondamentale era l’abbigliamento che ci descrive: Fazzoletti da uomo listati di nero, un fazzoletto grande damascato nero, vestito nero di pizzo a culetto e sciarpone e infine i commenti delle due amiche sulla dubbia moralità della defunta: “Ca poi le cumbinau puru quiddra, la purtau de casa lu Pittari e dopu sei misi ca se nzurau, sgravau.” ma davanti al corpo inerte di lei solo nenie, pianti, gesti a volte drammatici, e parole di lode che ricordavano le doti di generosità della defunta, “ca tenia nu bonu core!” Queste Scene suscitavano grande commozione e lacrime in tutti i presenti ma, al tempo stesso, la rabbiosa reazione del figlio della defunta che, ormai immerso nella modernità, scacciava le prefiche come residui di usanze ormai passate “Sciati te fore brutte mandramasce, no se usane chiui ste cose”.
Le “prefiche” erano figura importantissime negli eventi funebri del nostro Salento, erano donne compensate per piangere i morti.
Venivano chiamate dai parenti o a volte si presentavano di loro iniziativa, offrendo i propri servizi.
Maria Corti nel saggio “Otranto allo specchio” scrive: “Qualosa del mito ellenico alimenta la fantasia delle nere donne, sedute intorno al morto a cercargli un destino per l’al di là”.
E poi richiama in alcune strofe il senso di quei canti funebri: “E non addolorò la Morte non le addolorò il cuore troncare quest’albero da questo vicinato!” Era l’dea della condivisione del dolore funebre, un’assunzione sociale del lutto che si manifestava in varie forme, dalla veglia funebre estesa agli amici, la partecipazione di tutto il paese al funerale, all’usanza della parassomìa – lu consulu nel dialetto,ossia l’usanza di fornire per alcuni giorni alla famiglia del defunto pasti caldi: nella casa del morto, il fuoco, segno di vita, non si accendeva mai nei giorni del lutto L’autrice, pur vivendo nel presente, scientemente torna indietro nel tempo e ci propone altri deliziosi quadretti della vita del paese.
Nel “Lu dottore de la via” troviamo quasi un’antesignana del medico di famiglia “ogni strada aveva la sua infermiera” dice;Rosa , Maria curava ogni cosa:dai denti ai brufoli, alla previsione sul sesso del nascituro dalla forma della pancia delle gestanti :“panza pizzuta porta la scupa”, allu “matricune” i dolori addominali; i medicamenti per abbassare la pressione erano le sanguisughe o l’acqua e sale oppure ” lu risu cucinatu e ciceri rrustuti” In sintesi era la medicina naturale del buon senso e i pazienti ringraziavano contenti “lu Si gnore cu te fazza cu campi vecchia vecchia”.
Sappiamo che le colture più importanti nel Salento erano il grano e il tabacco e al tempo della raccolta le giornate di lavoro erano pesanti e faticose per tutta la famiglia.
Il tabacco comportava la raccolta foglia foglia e l’infilatura, poi l’esposizione al sole sui “turaletti”e “l’incasciatura”, la sistemazione nelle casse.
L’autrice ricorda che dopo una giornata di faticoso lavoro trascorsa a mietere il grano e legarlo in covoni e pesarlo, al ritorno di sera il padre e la madre erano smagriti e neri come la pece e loro ragazze avevano la pelle scurita dal sole.
Ma a volte dopo la cena con lo stufato e il formaggio di pecora arrivava sull’aia qualcuno con la fisarmonica e iniziava a suonare un valzer, poi un altro con la chitarra, poi uno con l’armonica e un altro col fischietto di canna e Rosa prendeva due coperchi per usarli come piatti; e allora , come per magia, il suono della musica ritmata trasformava la fatica in allegria: “c’erano anche i grilli e sembrava che volessero partecipare con noi al concerto!” conclude.
Rosa Potrei citare molti altri cunti interessanti che costituiscono riflessioni di vita capaci di tracciare lo stretto legame nella continuità dei sentimenti e della azioni umane – dell’oggi come allora – ma lasciamo ai lettori tutto il fascino di questa esperienza letteraria.
Desidero solo commentare un ultimo scritto che mi ha commossa profondamente.
“ANGHIRUZZA AMPI – SE TORNAVA ARRETU” E’una lettera di Rosa alla madre; parole di tenerezza e di gratitudine che dicono del legame profondo, viscerale di una figlia che, della vita vissuta insieme, ricorda con malinconica tristezza le fatiche di quelle mani ,di quel corpo materno per lei generoso insegnamento nella pratica della vita “ti ho rubato tutte quelle cose che facevi quando ti stavo accanto…” e allo stesso tempo leggiamo le parole d’amore che oggi tornano al punto di partenza: “se tornassi indietro ti darei tutto quello che tu hai dato a me …. se tornassi indietro raccoglierei in un vaso tutte le lacrime che sono scese dai tuoi occhi, e le metterei davanti alla Madonna, con una rosa.”
Qui sembra che ci siano solo gesti e non voci, che tutto sia sospeso in una bolla, e che non sia passata mai la vita e mai la morte e che ogni istante dell’oggi non distrugge ma è un eterno ritorno.
Per il lettore che legge questi cunti essi sono il simbolo dell’altezza dell’anima salentina, dell’ansia dei figli e delle figlie del Salento di sollevarsi dalla terra dei loro padri, di allargare gli orizzonti dell’esperienza quotidiana per salire sempre più in alto nello spazio dell’arte.
Allo straniero che viene in queste contrade ( e per straniero intendo anche gli abitanti delle altre regioni d’Italia) questo nostro popolo del sud col suo modo di vivere, l’ospitalità generosa e sacra, si presenta come un libro aperto solo se lo si legge con l’apertura del cuore, l’unica chiave per osservarlo in profondità, tanti sono i suoi poeti, cantori e narratori, ne abbiamo un esempio in quest’opera di Rosa Comi in cui la vita di Castrignano dei Greci diviene l’archetipo dello spirito di questa terra, dei suoi umori, delle radici e delle contraddizioni della vita del passato e del nostro presente, ma è anche l’ emblema di un popolo semplice e fiero con uno spirito energico come suo filo conduttore.
Grazie Rosa per averci regalato questo scritto intimo che invito tutti a leggere, perché queste pagine contengono la tenerezza di un linguaggio antico e pur attuale e ciascuno di noi può ritrovarsi nei gesti, negli incontri, nei detti che ci restituiscono intatta e amplificata la vitalità e la ricchezza delle nostre radici.
Articolo pubblicato su Quotidiano di Puglia del 17 gennaio 2024, sezione Cultura & Spettacoli.