Scritto con entusiasmo giovanile e con la saggezza degli anni, che, nel rispetto degli effetti, esigono la giustificazione delle cause. Questo romanzo ha visto la luce in cocente gestazione, quella dell’individuo che inventaria l’immenso inattingibile, respirato in folgorazioni fisiche e sentimentali e nella sua martellante presenza biologica contesta il computo della trame quotidiane, gravide di antecedenti, le cui ombre oscurano le speranze future. Ma, poi, ha avuto, con la vitalità di un vino generoso, il tempo di fermentare, di rivitalizzarsi nei filtri che vivificano quanto si è guardato senza contemplazione e si è giudicato senza riflessione, vale a dire l’intatta corposità della stagione infantile, quella che dà valore a ogni umana impresa. Infine gli anni che stagionano hanno consentito o imposto poi travasi e decantazioni, che, sempre fedeli all’idea centrale, rispondevano, prevalentemente, a esigenze stilistiche e a verifiche della consistenza della trama. Essa, nel rispetto della essenzialità e vitalità del corpus narrativo, non doveva perdere gli aromi e la fragranza che un’adeguata ossigenazione esalta come sostanze volatili, profumi e sapori che sensi e sentimenti percepiscono oltre la parola che suona e, talvolta, è oscura nei suoi pellegrinaggi tra difesa istintiva e moralità convenzionale. Era necessario contemperare le tentazioni che si determinano negli interventi delle ovvie stesure successive, delle riflessioni che focalizzano o amplificano gli orizzonti e delle mescolanze raffinate, ricche nei cromi di una tavolozza sperimentata con la necessità di non guastare il sapore primitivo.
Insomma tra libertà e necessità, tra costrizioni e aspirazioni, squilla l’antico quesito che pretende di giustificare l’esistenza del “sic et non”.
La vita è sogno, e l’ombra di un sogno è “eidolon” reale per chi la gestisce, è ombra per noi, che proiettati sulla tela del condizionamento esistenziale variamo con la luce contorni e dimensioni.
Siamo come le ombre cinesi, ombre comunque amareggiate dalla consapevolezza di dover incidere nello spazio senza essere padroni di liberarlo dall’importunità del condizionamento che la nostra stessa funzione ectoplasmatica vi esercita.
E l’istinto? La ferocia della belva è libertà di sopravvivenza, innocenza giustificata nel diritto di non tralignare la specie, è norma tramandata per insegnamento ed esercizio, è informazione genetica.
L’uomo invece si segnala per eccezionalità di sentire, emerge per doti non comuni. Egli può essere un segno o nessun segno sulla tela bianca della vita, quella sulla quale il primo tratto è già segnato alla nascita.
Angela, nonostante tutto, è un buon medico, ma con una mal dissimulata malinconia, sentendosi, inconsciamente e comunque parte del tutto. Si completerà con l’adozione di Salvo, orfano sbarcato a Lampedusa.
Il lettore avverte, in lontananza, la presenza forte, scolpita dalla forza e dal dolore di Rosario. E la scrittrice sembra, con sottile intelligenza e grazia, suggerire che solo accettando le debolezze altrui posiamo avere il coraggio di confessare le nostre e tentare la difficile connessione che stabilisce di interpretare gli effetti delle cause.
Clara Guarino